55m2 it’s our home! di Roberta Pagani

DayDreamer (o Renzi sei un cinesino) come quando, se l’altrove è qui, stereotyping is a key element in this exercise of symbolic violence1 : perdere le coordinate geografiche di armi, metallo e malattie2 è recuperare non tanto luoghi, ma traiettorie (alla round you). E quanno notte sarà, Africanella, in romanesco parla te sentirò3 ; è 55m2 – darling – your home! “Cinquantacinque metri quadri sono la tua casa”. Qui o dall’altra parte del mondo, che è un po’ la stessa cosa.

Il claim, 55 m2 it’s your home (titolo della mostra), viene usato dall’amatissima e popolarissima Ikea approdando, in tempi recenti, in estremo Oriente: la voce della renna svedese ha conquistato i cittadini di Mao grazie alla solita sfacciataggine da titolista che punta alle abitudini – culturali e sociali – per farle traballare e infiltrarsi, coinvolgendolo, nelle fila del pubblico a cui si rivolge. Cinquantacinque metri quadri sono la tua casa? Si. La dimensione domestica dell’era 2.0 viene misurata in poco più di un monolocale, perfettamente arredato dal copyright dello stile “Billy”, il versatile e intramontabile modulo di design casalingo: le “tue” cose non saranno mai solo tue, le troverai anche da me, da lui, da tanti, tutte brandizzate dal logo giallo e blu della multinazionale che ha conquistato il mondo. L’unicità è materia d’altri tempi. Ma, se già stupiva di incontrare stessi arredi e stesse tazze, a Berlino come a Parigi, città che tutto sommato un po’ di storia di vicinato l’hanno condivisa, ecco che incrociarle identiche a Shanghai, Pechino, New York o Ravenna, fa un certo effetto.

Non che il tipico global trotter contemporaneo sia ancora in caccia di esotismo a due zampe (anche se, sotto sotto, forse lo vorrebbe), ma nella magnifica rivoluzione digitale le distanze appaiono talmente azzerate che, a determinare il diverso, non è più una questione di geografia e forse nemmeno di coordinate culturali. Siamo tutti animali (o prodotti) di gruppi globali che condividono traiettorie, non più paesi, non province, non metropoli o stati, di comunità molto più virtuali che reali. Il gusto, uniformato e diffuso, è questione di visualizzazioni e utenti e l’estetica, quella del post internet, si confà alla democrazia del web. Walter Benjamin sosteneva che, nell’epoca della riproducibilità tecnica4 (era il 1935), l’opera d’arte avrebbe subìto un processo di desacralizzazione tale da far finalmente calare la maschera della sua aura ottocentesca per diventare qualcosa di meno mitico e più popolare. Potere della rappresentazione o politica della rappresentazione.

Il filosofo tedesco, prima di suicidarsi con una dose di morfina alla frontiera franco-spagnola mentre fuggiva verso gli Stati Uniti, ha in qualche modo profetizzato il tema della distanza – nella progettazione, nella produzione e quindi nella fruizione dell’opera d’arte – e anticipato i termini “pubblico” e “consumo” sostituendo quelli di “spettatore” e “fruizione”. La naturale evoluzione teorica si compie nelle definizioni di cultura massmediatica e comunità estesa, senza più confini; poi il tema nel cosiddetto villaggio globale introdotto dal compagno anglosassone Marshall McLuhan che, qualche decennio più tardi (tra gli anni sessanta e ottanta, in quella che molti definiscono come la IIIa rivoluzione industriale, delle telecomunicazioni e dell’informatica) ci ha fatto approdare all’inevitabile considerazione – valevole oggi come allora – che il medium è messaggio.5

L’età contemporanea è una complessità culturale che si definisce – in arte – nella critica postcoloniale in grado di combinare spassionatamente i linguaggi propri dell’espressione visiva con quelli comunitari (globali) di massa, contaminando e non lasciando più intravedere differenze tra alto e basso, tra accadimento reale o performance digitale, di sfera pubblica e dimensione privata; esiste un nuovo spazio diasporico secondo alcuni, spiazzante per altri, che pone l’accento sulla diversità ma assorbendola in un unicum trans-culturale, un attraversamento di stili, epoche e teorie del modello comunitario globale. In questo panorama, le categorie di casa, gruppo, confine, luogo, interazione, transito, si rendono visibili nella poetica dell’universale, che non riguarda un solo pianeta o una sola comunità, si espande dappertutto, e ricolloca il “qui” come categoria spazio-temporale nella quale trovare “l’altrove”.

In questa dispersione di coordinate geografiche Cristiano Tassinari intuisce traiettorie, svela stereotipi e propone esercizi di addensamento, senza nulla escludere, anzi. Procedendo alla maniera di un “pellegrino”, entra ed esce nel paesaggio che lo circonda in un processo di auto-dispersione e di accumulazione di tracce. Combina la memoria e la finzione, il diario di viaggio – personale – con la storia – universale. Cita, consciamente, la prosa del tedesco Winfried Georg Sebald nelle cui opere si inframmezzano squarci della storia antica e di quella di oggi, con una punteggiatura di eventi geopolitici e ambientali (terremoti, diluvi, catastrofi della natura e dell’economia rapace dell’uomo) utili a ricordare che la storia è un processo di cause ed effetti, che va analizzata sempre in maniera “obliqua” ovvero trasversale. L’ammirazione per un maestro che scrive in punta di penna e conduce il lettore in labirinti e dedali utili ad affrontare gli errori o gli orrori della trasformazione culturale e sociale, si traduce nell’emulazione – dell’artista – a “surfare” liberamente tra “fact and fiction”, cioè tra realtà e finzione.

La curiosità di Cristiano Tassinari può definirsi dunque pop, alla maniera degli inglesi (di David Hockney o Richard Hamilton), sempre ironica e farcita di quel tipico “sense of humor” che alleggerisce il rapporto di reciprocità tra l’artista e il mondo che lo circonda. Non vive nella critica, ma piuttosto della curiosità onnivora per tutto ciò che è contaminazione. Ed emulando una pratica in uso nella cultura digitale, di unire mitologia e trash, il “pellegrino-artista” introduce, macina, recupera, acquisisce, restituisce l’iconografia della pubblicità insieme a quella della storia dell’arte, citando e includendo, con continui ready made, alcuni evidenti, altri subliminali. Succede così nel progetto espositivo di 55m2 it’s our home! dove la storia dell’Italia più recente fa un balzo nel passato e poi nel futuro fino ad espandersi oltre i perimetri nazionali e quelli domestici; dall’opera Africanella (il titolo è di una canzone italiana del 1935, stesso anno della pubblicazione del testo di Benjamin), un neon che ridisegna un logo di epoca tardo fascista secondo l’iconografia tipica dell’età post bellica e quella della trinità cristiana, alle copie in metallo di lontani ricordi di famiglia: sono gli uccelli-richiamo, usati dal padre per le sue battute di caccia, sottoposti a lunghi passaggi di lavorazione artigianale e tradotti nella loro cristallizzazione scultorea.

Cristiano Tassinari somma e poi procede per sottrazione, di immagini e ready made, che siano scultorei o fotografici (o espressione di un autocitazionismo divertito) di usi e costumi provenienti dalla moda (di strada), dal design (industriale) e dalla grafica (pubblicitaria), con un linguaggio che va dalla figurazione europea anni ’90 al minimalismo della scuola americana fino all’uso di materiali recuperati – con la serie progressiva di sculture object oriented objects – che approda oggi all’influenza di digitale e post internet, con flussi di immagini di genere “smart” e regole estetiche dettate dall’advertising. Cristiano Tassinari è un accumulatore seriale di simboli e di soggetti, nel suo archivio lo stereotipo è la nuova icona capace di promuovere quel senso di comunità globale, alla maniera di uno slogan pubblicitario che fa sentire a casa qui, a Shanghai o in qualsiasi altra parte del mondo.

Roberta Pagani


1 Hall, Stuart, ed. Representation: Cultural Representations and Signifying Practices. London; Sage, 2003. Print.
2 Diamond, Jared, Armi, metallo e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni. Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino, 1998
3 Miscel, AFRICANELLA, con coro; di Martelli – Neri – Simi; 1935; Durium La voce dell’Impero l 5076
4 Benjamin, Walter, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa. Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino, 1996
5 McLuhan, Marshal, Il medium è il messaggio scritto con Quentin Fiore, Feltrinelli, Milano